“Te lo dico. Ti sei proprio perso una roba”. Benino si era appena svegliato. C’era grande trambusto nel villaggio.
Non che la cosa lo disturbasse, avrebbe dormito volentieri ancora una mezza giornata, ma il garzone del pastore, quello antipatico che se ne va sempre in giro con una pecora sulle spalle, continuava a bighellonargli intorno.
“Ti dico. Una roba proprio. In tre erano. Dovevi vederli”.
Che poi, cosa se ne faceva di quella povera pecora sempre in spalla? Aveva freddo? La usava tipo una sciarpa?
E adesso era lì davanti che gli borbottava di robe perse.
“Guarda, ti dico, proprio una roba”.
“E oh basta! E ti dico, ti dico, e non dici un bel niente. E dimmi”.
Il pastore si abbassò, fece per parlare ma vide la signora che dava da mangiare alle oche. La chiamò: “Ehi! Diglielo tu. Digli della roba”.
Benino stava iniziando a irritarsi. Maledetto rompiscatole. Dimmi piuttosto che ci fai tu tutto il giorno con quella cavolo di pecora.
Stava quasi per chiederglielo, giusto per fare l’antipatico, quando la signora delle oche avvicinandosi disse: “Hai presente quelli? Il falegname”.
Benino li guardò entrambi senza capire, poi scosse le spalle e disse “Eh”.
“Il falegname che ha avuto il bambino. Che poi sai cosa si dice in giro, che quel bambino non è che”. Benino fece un segno con la mano, aveva capito, lasciamo correre.
“Ecco. Questi neanche una lira c’hanno. Neanche il pane tra poco mangiano. Neanche i soldi per le lacrime tengono”.
“Parla la regina”.
“Eh, ora senti. A questi gli nasce la creatura, e chi li va a trovare?”
Benino cercò la risposta nel sorriso beffardo del pastorello, nello sguardo perso nel vuoto della sua pecora, negli occhi divertiti degli abitanti del villaggio che nel frattempo si erano avvicinati.
“E chi?”
“Tre monarchi”
“Tre cosa?”
“Tre monarchi. Sta a dire tre sovrani. E tutti vestiti proprio belli. Un luccichio unico. Una roba. Poi questi cappelli d’oro e le scarpe a punta di diamanti. Avresti dovuto vedere. Ma tu dormivi. Continua pure eh, che ti fa bene!”
“Tre monarchi?” Benino era tanto stupito quanto deluso. Gli avrebbe fatto molto piacere vederli. In vita sua non aveva mai visto un monarca, figurarsi tre in un colpo solo.
“Hanno attraversato tutto il deserto solo per venire qui a inchinarsi al figlio del falegname. Proprio inchinati eh, con le ginocchia e la genuflessione.
E gli hanno portato dei regali. Mai vista una cosa simile. Anzi, io l’ho vista. Tu no”.
“Ma ora dove sono?”, chiese Benino con una punta di speranza. Voleva vedere i luccichii e i vestiti d’oro.
“Ripartiti. Te li sei persi. Sempre a dormire eh”.
“Ma non potevate chiamarmi?”
“Eh si col piffero che ti chiamiamo. E poi chi se la godeva sta faccia che hai adesso?”. E tutti a ridere.
Benino li apostrofò con frasi che per decenza non riportiamo. Ipotizzò cosa il pastorello facesse tutto il giorno nascosto con la pecora e suggerì alla signora un luogo buio e sicuro dove riporre tutte le sue oche. Già che c’era, rivelò al maniscalco che tutti i membri della sua adorata famiglia svolgevano il medesimo antico mestiere, e con quali sostanze organiche l’oste fosse solito allungare le sue pregiate bevande.
La gente del villaggio si allontanò ridendo leggermente meno.
Rimasto finalmente solo, Benino architettò un micidiale piano di vendetta. Tornò a dormire.
“Ora vi aggiusto io. Adesso mi metto qui e faccio un bel sogno, ma ci metto dentro solo quelli che dico io.
Così imparano a non farmi vedere le cose belle. Adesso saranno le cose belle a non vedere voi. Eh sì miei cari.
Alla moglie del falegname le faccio anche un vestito blu, di quelli costosi che non si può permettere, alla facciazza vostra.
Sarà il mio regalo di augurio.
Altro che i monarchi. Gli regalo anche due belle bestie, che servono sempre, gli faccio un bue e un asino, belli e calmi, così lavorano quel pezzo di terra spelacchiata che hanno e possono portare le verdure al mercato e comprarsi due vestiti per il bambino. Io mi faccio un lusso, dei bei pantaloni rossi, di porpora, e una bella camicia bianca, pulita, immacolata”.
Benino iniziò a sognarsi tutti i particolari della scena di attesa dei tre re così come avrebbe voluto vederla.
Ma a un certo punto, nello sforzo di costruirsi il sogno, un piccolo particolare fuggì al suo controllo: a tutti i personaggi iniziarono a spuntare dei fischietti dal corpo.
E iniziarono a suonare, tutti insieme, per cercare di svegliarlo.
“Se mi sveglio, tutto questo finirà, e tutta questa bella realtà che ho fatto smetterà di esistere”, Benino pensava guardandosi sdraiato nel sogno, e notando che un fischietto stava spuntando pure dal suo fianco.
“Sicuramente li suonano il pastorello, la megera delle oche e gli altri, cercano di infilarsi nel sogno per distrarmi, per rovinarlo e per burlarmi.
Ma non ci riusciranno mai, dovessi dormire così per sempre”.
E infatti il nostro Benino ormai dormiva come pasta nel forno, come argilla nella fornace, come chi trova la casa calda di ritorno da un lungo viaggio nel freddo del deserto.
testo di Treti Galaxie